Primo classificato III Concorso SEPAR racconto breve
Traduzione di Marcela Ivonne Schiaffini; Revisione di Sabrina Pino

A sinistra, il groviglio di cavi e i numeri lampeggianti. Macchinari che mi tengono attaccato alla vita, che ascoltano le mie viscere e tengono il conto dei miei battiti. Di fronte, due poltrone vuote, quelle per familiari e visitatori. Sul fondo, il televisore a gettoni sempre acceso con il suo mormorio sordo da compagnia simulata.
Una macchia di umidità sul soffitto e un mazzo di fiori disorientati che non sanno chi guardare.
La porta della stanza è attraversata continuamente da figure con indosso la divisa della fatica, della tristezza e dello sconforto.
Volti senza nomi dietro ai quali si intravede un gesto gentile, di speranza. Nel letto accanto, attaccato alla vita attraverso la sua matassa di cavi, spunta il braccio nodoso di Matías. Il profilo sfumato affonda nel cuscino.
Il suo corpo divorato da un materasso che cresce man mano che lui si restringe. Vedendolo penso che nella vita ci sia un qualcosa di circolare, un abbraccio che riconcilia, che accorcia le distanze tra ciò che siamo stati, il passato imperfetto, e ciò che siamo. La muscolatura, la pelle, l’altezza, tutto si riduce, ma acquisisce a sua volta gravità, lasciandoci più vicini, più attaccati alla terra. Come se a mo’ di avvertimento se ne andasse tutto ciò che è di troppo. Matías è, essenzialmente, un sacco di angosce e timori, un paguro senza il suo guscio. Può una persona restringersi in due settimane? Qui, l’anelato riposo non arriva mai. Il silenzio viene rotto a qualsiasi ora da un allarme, dall’eco di zoccoli accelerati che risuonano nel corridoio o da un numero di stanza gridato, con urgenza, o dai singhiozzi di una donna che piange dietro a un distributore. Una specie di macabra lotteria che distribuisce quotidianamente la sua disgrazia. E ti viene voglia di morire, anche se solo per un momento. Contemplo la flebo assorto. Spunta una goccia, s’ingrandisce lentamente, resta sospesa come una perla diafana. Scivola nel condotto fino a entrarmi dentro come un affluente vitale. Tre secondi. Una goccia… un’altra… Mi affascina quel momento. Voglio essere una goccia, rinascere una e un’altra volta ancora in tre secondi. Il povero Matías non smette di tossire. Quando ancora riusciva, mi raccontava con nostalgia dei suoi figli, dei suoi nipoti. Come chi parla di un libro a cui mancano capitoli. Adesso non parla più. Respira in modo cavernoso, profondo, senza ritmo, soggetto ai capricci delle sue forze. Come se chiedesse il permesso a ogni inspirazione, grato per ogni nuovo respiro. Ieri stava per andarsene di nuovo, ancora. Tutta colpa di due numeri rossi lampeggianti. Ottantacinque. Aveva sfiorato la fatidica cifra che ne deciderà il trasferimento. «Matías, da bravo… Se scende a ottantacinque, va in TI. Non vorrà mica lasciare solo il Signor Manuel…», gli sussurrava la voce spezzata dell’infermiera mentre gli sosteneva la mano. La trascendenza di due cifre. Ottantacinque. Le stesse della mia età. Matías socchiuse gli occhi e sorrise sotto la mascherina, annuendo con un sussurro minimo, un filo di voce che svaniva prima di arrivare a destinazione.
Ogni tre ore mi cambiano di posizione e aspetto ansioso quel momento. Da questo lato, la vista è molto diversa. Un quadrilatero azzurro nel quale si intravedono in lontananza gli alberi insaziabili del parterre, le loro enormi braccia rugose, i roseti, la fontana e i suoi marmorei nudi, lo stagno con i pesci rossi. Mi sporgo dal letto verso quel mosaico di vita, lo accarezzo con le dita degli occhi. Mi concentro su quel quadro che mi si offre, sull’ intimo privilegio che ricreerà nella mia mente. Oggi il cielo è limpido come nei giorni di maestrale. Quel che resta di una nuvola lascia appena la sua traccia: è uno di quei giorni di primavera anticipata nei quali il sole ti avvolge. Profuma già di fiori d’arancio. Immagino il fruscio delle foglie, il suono dell’erba che cresce. La luce attraversa le persiane e imprime nella parete un messaggio nel suo particolare linguaggio morse. È domenica, o almeno credo, merita di essere domenica. Non una domenica qualsiasi, ma una domenica in più. Riconosco lo schiamazzo dei bambini nel parco. Alcuni rincorrono il pallone, altri si rincorrono in un inseguimento senza fine. I più piccoli passeggiano dando la mano ai genitori, ai nonni, impazienti, in attesa del loro turno per scendere giù dallo scivolo. Si arrampicano sulla scaletta, una lieve titubanza e poi l’emozione della discesa. Ad aspettarli, alla fine, qualcuno che accoglie il loro sorriso. Tre secondi appena e si ricomincia. Voglio essere anch’io bambino, scendere una e ancora una volta da quello scivolo. Vedo l’immagine del piccolo Miguel che mi tira la manica e mi indica il chiosco all’angolo.
Mio figlio ci osserva da una panchina. Tende il palmo della mano aspettando che gli dia una moneta, la sua moneta della domenica. «Per la collezione di minerali, nonno». Voglio rispondergli, ma qualcosa mi riporta alla realtà. Qualcuno grida disperato il nostro numero di stanza. E la stanza si riempie di allarmi, di visi senza nome che lottano per sostenere una vita. «Se ne sta andando… ». Allungo la mano per provare a toccare Miguel, che mi appare sempre più nitido, più vicino, e gli rispondo pettinandogli la frangetta: «Certo, Miguel… Come ogni domenica. Come una domenica in più…».
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Leggi qui il racconto il lingua spagnola.

Link utili:
José Ramón Codina Villalón – Leggi qui l’intervista
SEPAR – Società spagnola di pneumologia e chirurgia toracica
Marta Waterme – illustratrice