Traduzione di Sabrina Pino, Revisione di Marcela Ivonne Schiaffini
Sono passate migliaia di anni, ma lo ricordo ancora alla perfezione. Il mio pianeta era molto diverso dalla Terra, aveva cinque satelliti ed era dieci volte più grande, ma quello che lo rendeva davvero differente era la gente, le persone.
Quando ancora vivevo lì, guardavamo con entusiasmo ai progressi del pianeta azzurro. Una specie in evoluzione che potenziava la propria intelligenza, capace di inventare mezzi che l’avrebbero avvicinata a noi. Non siamo voluti intervenire per non influire sul vostro progresso ma, dopo il nostro incidente, ciò fu inevitabile.
Io stesso ero uno di quegli scienziati che studiavano lo spazio, i vostri progressi e quelli di molti altri pianeti. Mi affascinava osservare le stelle, fare elucubrazioni sulle loro origini e il loro destino, preparare le missioni per commerciare con le altre galassie. Wfilagac, il mio collega, era più interessato alla biologia: non potete immaginare quanto gli piacessero gli esseri volanti della Terra. Sognava da sempre di introdurre gli uccelli nel nostro mondo, ma data la potentissima forza di gravità che c’era, dubito che sarebbe stato possibile.
I nostri animali erano generalmente piccoli e robusti, molto lontani dalle vostre giraffe o elefanti. Devo ammettere che nonostante non fossi un grande amante della fauna, l’idea di poter montare a cavallo come fate voi, era un mio piccolo desiderio. Fu una delle prime cose che feci appena arrivato sulla Terra, dopo diventò un’abitudine, fino a che non fui cacciato.
Prima di approdare sul vostro pianeta conducevo una vita tranquilla, lavoravo ogni giorno e il pomeriggio me ne andavo in giro da qualche parte. I nostri viaggi erano totalmente diversi dai vostri: in mancanza di un termine migliore, li chiamerò viaggi elettromentali. Al giorno d’oggi, sulla Terra siete in grado di inviare enormi quantità di dati a distanza attraverso i computer, cosa che noi avevamo già inventato millenni prima, ma sul nostro pianeta noi mandavamo anche il pensiero. In questo modo con un microcomputer portatile connesso alla rete si poteva far viaggiare la mente in qualsiasi parte del cosmo.
Adesso starete pensando ai pericoli della vita virtuale nei videogiochi, ma insieme agli stessi problemi che si possono riscontrare nei viaggi elettromentali, ci sono anche molti benefici: potevi sentire la carezza del vento in una notte stellata illuminata da numerosi satelliti, mentre nella tua città il caldo era infernale.
Prima ho parlato dell’impossibilità di cavalcare i robusti animali del nostro mondo, ma in realtà non è del tutto vero. Quando il tuo ologramma si trovava in mezzo a una mandria di Flufsic, potevi ordinare al microcomputer di farti saltare sul dorso di uno di loro, in modo da poter sentire la spinta di ognuna delle sue dodici alette, la durezza della pelle o vedere come cambiavano di tono le macchie ocra in base all’età della specie.
Per quanto mi riguarda preferivo altre situazioni come i paesaggi spettacolari e, quando riuscivo a convincere qualche amico, andavo a esplorare i nuovi mondi con i quali eravamo in contatto. Come potete immaginare, quasi mai restavo nel sistema solare.
Oh! Non posso fare a meno di sentirmi malinconico. Volevo raccontarvi di come sono arrivato qui e quello che mi lasciavo alle spalle e non faccio che parlare di com’era il mio pianeta. Adesso vi racconterò del mio arrivo e dell’attacco subito dal quinto pianeta del sistema solare.
Non conoscete ancora i mostri spaziali, delle creature decisamente pericolose. Queste bestiacce viaggiano per lo spazio e il loro unico nutrimento sono le stelle ma, è ovvio, a volte si verificano degli incidenti.
Originariamente Giove aveva cinque grandi satelliti che orbitavano intorno a lui. Una volta ogni ottomila anni accadeva un miracolo: il doppio sole. Nel corso della rotazione dei nostri satelliti, in maniera del tutto casuale, questi si collocavano in modo da riflettere la luce del Sole tra di loro. Quando le lune formavano un pentagono con il vertice dal lato opposto al Sole, la sua luce si rifletteva sulle prime due lune che la proiettavano sulle altre due; infine, la quinta riceveva la luce dagli altri quattro satelliti e brillava con una potenza mai vista.
Un giorno, ormai millecinquecento anni fa, si verificò questo fenomeno. Passai tutta la notte a lavoro a contemplare quella meraviglia, quando all’improvviso vidi un’ombra solcare una delle lune. Regolai l’oloscopio, misi a fuoco l’immagine e vidi il sinuoso profilo del più grande mostro del cosmo: era un Tlecjan. A causa della luce accumulata dalla quinta luna, aveva scambiato il satellite per una piccola stella e si apprestava a inghiottirla.
Io potevo fare ben poco; rimasi lì a guardare come quel mostro apriva le sue fauci titaniche e mordeva la nostra luna. Anche se in realtà non vidi nulla. Le lacrime mi inondavano gli occhi fino a che le grida dei miei colleghi non mi allarmarono. Dopo il morso, la creatura si accorse del suo errore, sputò e si contorse inquieta, raggiungendoci. Il suo impatto alterò la stabilità della nostra superficie, creando la Grande Macchia Rossa.
Milioni di morti in pochi minuti e non so quanti ce ne furono dopo. Dal mio osservatorio avvertimmo l’onda d’urto e il nostro edificio saltò completamente in aria. L’edificio girava su sé stesso, noi sbattevamo e cadevamo più e più volte. Non ci volle molto per capire in che direzione stavamo andando. Cercai di avvertire i miei colleghi, ma comunicare era impossibile; mi limitai a fargli cenno di seguirmi.
Corsi verso il magazzino e schiacciai il bottone di assemblaggio delle tute spaziali, poiché era quella la nostra destinazione: lo spazio. Mi voltai, guardai con orrore come Giove si faceva sempre più piccolo. Volavamo verso il corpo del serpente spaziale, lui non avrebbe sentito nulla se ci fossimo schiantati e noi avremmo smesso di sentire per sempre. Le finestre erano in frantumi. Mi affacciai e vidi come il mostro alzava la testa dopo l’impatto con il nostro pianeta. Strinsi i pugni, ormai impotente. Anche il collega accanto a me indossava la tuta spaziale, ma il sangue che vedevo attraverso il suo casco lasciava intendere che non avrebbe potuto fare di più.
Gridai e saltai dalla finestra. Mi trovavo nello spazio. Accanto a me avevo la mia casa, Giove, con un serpente più grande del mio stesso pianeta che si contorceva sulla sua superficie. Non c’era più niente che potessi fare lì. Guardai verso il luogo che aveva entusiasmato tanto il mio collega, verso di voi. Secondo i vostri parametri quello che feci in seguito sarebbe impossibile, ma io vengo da Giove, la forza di gravità lì ha reso i miei muscoli più potenti dei vostri fulmini.
Saltai sul dorso del serpente, che stava per raggiungere Venere, e avanzai su tutta la sua superficie, continuando a saltare, mentre il Sole oscillava di fronte a me. Qualche ora più tardi atterravo sulla Terra.
Arrivai nel deserto del Sahara perché non volevo che qualcuno mi scoprisse mentre cercavo di conoscere meglio il posto. Saltai un po’ per stapparmi le orecchie e caddi a vari chilometri di distanza. Da allora non salto quasi più.
Quando mi abituai a camminare, abbandonai il calore della sabbia per muovere i primi passi nella civiltà. La visione della mia pelle grigiastra e dei miei occhi gialli vi fece allontanare da me. Fu così che venni a conoscenza del grande problema dell’umanità che la rende così diversa dalla mia gente. Sul mio pianeta l’amicizia era la cosa più importante, che ci rendeva tutti fratelli: un’unica famiglia di milioni di individui.
Il segreto della nostra vita è molto semplice: è l’allegria, lo scambio di regali. Era un evento raro non ricevere un dono al giorno o non farne uno, anche il più semplice. Quando si fa un regalo, il gesto è ciò che più conta, così, ogni volta che gli amici si incontrano, si scambiano un dono, non importa che sia un portachiavi, un dolcetto o un libro. Ogni regalo viene accompagnato da un sorriso e grazie a questo, l’amicizia diventa ogni volta più forte: proprio quello che mancava all’umanità.
Mi allontanai da ogni città e coprii completamente il mio corpo con vestiti rossi per sottrarre alla vostra vista l’aspetto della mia pelle, che voi consideravate rivoltante. Mi lasciai crescere la barba bianca per occultare i miei tratti alieni. Infine, con un cappello dello stesso colore nascosi anche le escrescenze craniche tipiche della mia razza.
In quel modo potevo passare inosservato tra la vostra gente, bisognava solo ricreare lo spirito dell’amicizia, lo scambio dei doni. Sapevo che sarebbe stato impossibile per me poter raggiungere tutti, quindi mi concentrai solo sui bambini. Approfittando della forza che avevo acquisito sul mio pianeta, cominciai ad andare in giro a distribuire regali, a donare sorrisi.
Lo faccio ormai da duemila anni. Ogni ventiquattro dicembre viaggio distribuendo doni a coloro che ne hanno più bisogno. Tuttavia, la mia longevità ha un limite, presto dovrò smettere di saltare di casa in casa, di paese in paese.
Adesso che conoscete la mia storia, la mia essenza, non fate sparire i miei regali e con loro il mio messaggio, non lasciate che l’amicizia venga dimenticata.
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Ringraziamenti:
A Dani e Leo va il nostro ringraziamento per aver supportato con entusiasmo il nostro progetto. Per l’incoraggiamento che ci hanno dato nel proseguire e per aver contribuito a rendere migliore il nostro blog.
¡ Feliz Navidad !
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Romanzo: El filo de la luz (Luces las tinieblas)
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